Mobility manager: una figura specifica per un’operatività ancora poco concreta?
Correva l’anno 1998 quando a marzo l’allora ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, Presidente del Consiglio Romano Prodi, si rese promotore di un decreto relativo alla “mobilità sostenibile nelle aree urbane”, istituendo di fatto una figura innovativa nel panorama delle imprese italiane: quella del mobility manager, un vero e proprio responsabile degli spostamenti del personale da e verso l’azienda.
All’epoca si trattò di un’autentica novità, frutto di una sensibilità che cominciava a permearsi gradualmente nella società civile e che vedeva nel mondo imprenditoriale un potenziale “alleato” per coniugare in maniera concreta ogni possibile iniziativa tesa a salvaguardare l’ambiente anche in un’ottica di razionalizzazione e di efficientamento dell’utilizzo sia del mezzo proprio che del trasporto urbano.
E di lavoro da remoto, nelle forme e nelle modalità attualmente concepite, si manifestava appena timidamente una pallida idea di futuribilità…
In verità per le aziende l’introduzione di tale professionalità venne circoscritta a quelle aventi singole unità locali con più di 300 unità (soglia dimensionale che valeva anche per gli enti pubblici) o complessivamente più di 800 unità ubicate nei comuni con potenziale elevato tasso di inquinamento, prevedendo altresì, sempre sotto la responsabilità del mobility manager, la redazione del cosiddetto “piano degli spostamenti casa-lavoro” del personale dipendente.
Prima di approdare al decreto firmato congiuntamente dai titolari, ai tempi del Governo Draghi, del dicastero per le infrastrutture, Enrico Giovannini, e del dicastero per la transizione ecologica, Roberto Cingolani, era stato definito uno step intermedio, che aveva portato all’implementazione di questa figura anche per le scuole, nel 2015.
Di sicuro quest’ultimo provvedimento, oltre ad aver reso maggiormente esplicite le attribuzioni in capo al mobility manager aziendale e a quello d’area – una sorta di potenziale ruolo di raccordo e coordinamento tra gli omologhi delle imprese e i comuni territorialmente competenti presso i quali è designato – ha disposto l’adozione del piano degli spostamenti casa lavoro entro il 31 dicembre di ogni anno per le aziende con unità produttive con più di 100 addetti, ubicate in un capoluogo di regione, in una città metropolitana, in un capoluogo di provincia, ovvero in un comune superiore a 50mila abitanti.
Senza entrare nel merito delle specificità e dei peculiari campi d’azione in capo ad ogni figura e alle declinazioni di carattere operativo ivi contemplati, non v’è dubbio che il decreto abbia sancito un deciso cambio di passo, almeno in via teorica, verso la non più procrastinabile necessità di consolidare, anzi, decisamente migliorare, un percorso avviato sul finire del precedente millennio che, all’atto pratico – i numeri sono lì, impietosi, a testimoniarlo – ha dato vita a davvero poche situazioni virtuose.
Di sicuro il testo scritto dagli ex ministri Giovannini e Cingolani ha restituito dignità al mobility manager, dal momento che è stato individuato come una figura da nominare “tra soggetti in possesso di un’elevata e riconosciuta competenza professionale e/o comprovata esperienza nel settore della mobilità sostenibile, dei trasporti o della tutela dell’ambiente”.
Non si tratta, in sostanza, di un impegno al quale ci si potrà dedicare nei ritagli di tempo, tanto per assolvere ad un obbligo di legge (il cui mancato rispetto, per inciso, non prevede tuttavia alcuna sanzione), ma di un incarico di natura sistematica e specialistica, tali e tante sono le attività da sostenere, attribuendogli il giusto peso anche in termini di budget e di visibilità aziendale.
Ecco, quindi, che si potrebbero manifestare concretamente interessanti prospettive in termini di nuove opportunità mirate di lavoro, soprattutto in assenza delle richiamate competenze specifiche, che sarebbero da acquisire frequentando iniziative formative ad hoc.
Non sono mancati in verità anche pareri discordanti, che hanno visto in quel decreto l’ennesimo onere a carico delle aziende, alla quali si demanderebbero compiti e misure da mantenere invece ben saldi nella sfera pubblica, pur in un’ottica di complementarietà e di responsabilità sociale d’impresa.