Morigeratezza contro iperconnessione: quel che (non) insegna il patrono di Internet
C’è una stanza a Milano che sembra uscita da un tempo sospeso. Non è un museo, non è una teca. È la cameretta di un adolescente: scaffali con modellini, qualche giocattolo, poster, perfino una PlayStation. Una cameretta normale, se non fosse che apparteneva a Carlo Acutis, il ragazzo morto a quindici anni e oggi venerato come patrono di Internet. Un santo giovane, di quelli che non hanno avuto il tempo di compiere imprese straordinarie, ma che hanno insegnato molto proprio con la semplicità della vita di tutti i giorni.
Di Carlo si racconta spesso la passione per il computer, per la programmazione, per il web. Ma c’è un dettaglio che forse dice più di mille biografie: quella PlayStation che gli venne regalata e che lui decise di usare al massimo un’ora al giorno. Non perché fosse austero per dovere, ma perché aveva già letto dei rischi dell’eccesso, della possibilità che un gioco generasse dipendenza. Così, a nove anni, si diede una regola che molti adulti oggi faticano a rispettare.
È in questa scelta minuta, quasi banale, che si capisce il senso più profondo della sua testimonianza. Carlo non ha inventato nulla, non ha scritto trattati, non ha guidato rivoluzioni. Ha vissuto, semplicemente, con consapevolezza. Ha scelto di dosare, di discernere, di non lasciarsi trascinare. Ecco forse il primo insegnamento che lascia a noi, immersi nel vortice della tecnologia e dell’intelligenza artificiale: non serve demonizzare, ma conoscere. Non serve chiudere le porte al nuovo, ma imparare ad abitarlo senza diventarne schiavi.
Viviamo in un tempo in cui la parola “limite” è considerata quasi offensiva. La libertà è spesso confusa con l’assenza di vincoli, con la possibilità di fare tutto, subito, sempre. Eppure proprio un ragazzo di nove anni ci ricorda che la libertà vera non è l’illimitato, ma la capacità di scegliere il proprio limite. Chi è libero non è chi cede a ogni impulso, ma chi sa dire a se stesso: “basta così”. È un paradosso che oggi facciamo fatica ad accettare, e che pure resta attuale e urgente.
In questi mesi si parla molto di rischi legati all’intelligenza artificiale, alle piattaforme digitali, ai social network che creano dipendenza. Si cercano regolamenti, si chiedono paletti, si invocano moratorie. Tutto utile, tutto giusto. Ma dimentichiamo che la prima difesa resta la coscienza individuale, quel discernimento che non si insegna con una legge, ma con l’educazione. E che dovrebbe cominciare fin dalla tenera età, non con prediche sterili, ma con l’esempio e con la capacità di spiegare. Perché se un bambino di nove anni poteva intuire i rischi della dipendenza, non è troppo tardi per noi adulti che a volte preferiamo delegare la responsabilità a un algoritmo.
Il rischio della tecnologia, oggi, non è la tecnologia in sé. È l’uso che ne facciamo: quando diventa anestetico, quando diventa fuga, quando diventa sostituto della relazione vera. Carlo ci ricorda che la rete può essere un luogo buono se usato per costruire, per raccontare, per condividere. Ma diventa gabbia se lo si abita senza regole.
C’è poi un altro aspetto, che riguarda il tema della santità. Quando pensiamo ai santi, immaginiamo figure lontane, giganti della fede, eroi capaci di imprese che noi non potremmo mai neppure minimamente sognare. Ma la santità, lo ricordava spesso anche Papa Francesco, è fatta di piccoli gesti quotidiani: fare bene ciò che si deve fare, essere presenti agli altri, vivere con responsabilità le occasioni del tempo. Carlo Acutis non ha fatto nulla di eclatante, se non vivere bene la sua normalità: studiare, programmare, giocare con misura, frequentare l’oratorio, coltivare le relazioni. È in questa “straordinaria ordinarietà” che si rivela il senso della sua testimonianza.
La sua figura mette in crisi anche un altro luogo comune: quello secondo cui la tecnologia è il male assoluto. Non lo è. Lo è il suo abuso, lo è il lasciarsi dominare. Demonizzare i computer o i social è facile, ma non serve. Serve educare a usarli. Serve insegnare che non sono un fine, ma un mezzo. Serve ricordare che la vita vera è quella che pulsa fuori dallo schermo, ma che anche nello schermo, se usato bene, possono passare luce e verità.
Forse allora il messaggio di Carlo è più urgente che mai: non lasciare che le macchine dettino il passo, ma imparare noi a governarle. Non sottrarci al digitale, ma vivere il digitale senza che ci consumi. Non servono grandi imprese, basta poco: spegnere dopo un’ora, scegliere di uscire a camminare, decidere di incontrare qualcuno dal vivo invece che limitarsi a scrivergli un messaggio.
Santità è questo: un’ora di gioco e non di più. Un limite scelto, non imposto. Una consapevolezza che nasce dalla semplicità. Una strada che non chiede eroismi, ma fedeltà quotidiana. E che ci dice che siamo tutti chiamati a costruire la nostra misura Perché nessuno è troppo piccolo o troppo grande per imparare a vivere bene.
“Non lasciamoci ingannare dalla promessa dell’illimitato. La libertà vera nasce dal limite scelto” (San Carlo Acutis).