Più su. Sospinto dagli altri. Oltre ogni limite.
Ci sono momenti che restano scolpiti per sempre nella mente di chi li ha direttamente vissuti e un domani potrà dire, con un pizzico di sano orgoglio: “io c’ero”.
Il guardare una foto ha invece il grosso pregio di porre tutti sullo stesso piano, ma conserva il privilegio di consentire a ciascuno di ricavare una personale risonanza che, per quanto simile, non sarà mai uguale a quella di un altro. Come accade, ad esempio, quando si ammira un dipinto degli impressionisti.
Ancora una volta è la recente, memorabile Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona a offrire terreno fertile nel quale alimentare una riflessione proprio grazie ad uno di quei milioni e milioni di clic veicolati in tempo reale dai social media.
L’evento per antonomasia nel quale multietnicità e diversa provenienza, non solo geografica, fanno sintesi, abbattendo barriere, anzi valorizzandole all’insegna dello stare insieme, ha restituito in tutta la sua dirompente espressività l’immagine radiosa di un adolescente.
Fin qui nulla di strano, si direbbe. Invece quel ragazzo, restando seduto sulla sedia a rotelle, quasi vincendo la forza di gravità è stato letteralmente sollevato da terra da otto braccia, neanche tanto possenti, per consentirgli di vedere lontano, oltre il muro di folla nel quale era immerso.
Fatte salve le debite proporzioni e la differente direzione del gesto, come tuttavia non richiamare alla memoria questo famoso episodio del Vangelo di Luca… “Ed ecco alcuni uomini, portando sopra un letto un paralitico, cercavano di farlo passare e metterlo davanti a lui. Non trovando da qual parte introdurlo a causa della folla, salirono sul tetto e lo calarono attraverso le tegole con il lettuccio davanti a Gesù, nel mezzo della stanza”.
Nel nostro caso conta men che nulla puntualizzare sulla effettiva situazione di salute e fisica del giovane. Ciò che invece vale la pena mettere in evidenza è il messaggio che scaturisce da quell’istantanea: da soli non ci si salva. E se apparentemente sembra essere un assunto di fede, non vi è espressione e constatazione più laica di questa!
Aprirsi all’incontro con l’altro, superando ogni forma di diffidenza e di pregiudizio, e riversare in un contesto comunitario i propri disagi, le proprie sofferenze, non significa poi riaffiorare sempre con soluzioni “chiavi in mano”. Significa, al contrario, acquisire quella forma mentis di chi diventa consapevole che il primo vero aiuto risiede nella lungimiranza di mettersi in gioco nel chiederlo, non di riceverlo a prescindere.
Così agendo spesso accade di beneficiare oltre le più rosee aspettative. Quando, ad esempio, emerge quella sensazione di consolazione che fa relativizzare il proprio malessere, in genere assolutizzato, ascoltando e facendo proprie le esperienze altrui.
Le braccia che sollevano e innalzano diventano allora la strada. Come ha sperimentato quel giovane che senza volerlo ha insegnato a tutto il mondo la bellezza di un sorriso e di una gioia. Nonostante tutto.
Oggi quelle braccia hanno aiutato lui. Domani potranno aiutare chiunque si disponga a far cedere l’io a vantaggio del noi.
Siamo soli e senza scuse, come sostiene Sartre? Invece siamo nati per vivere (in) una relazione continua.
“L’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunità, nell’unità dell’uomo con l’uomo” (Ludwig Feuerbach).