Si “scivolerà” sempre di più con il Contratto di Espansione?
Quando vide la luce nel 2019, la legge che lo istituì fu inizialmente battezzata come quella ideata ad hoc per le multinazionali e le grandi aziende, tenuto conto della soglia di accesso – 1000 addetti – posta quale elemento abilitante al suo utilizzo.
Soprattutto in funzione della possibilità di ricorrere a uno (il cosiddetto scivolo pensionistico) dei quattro “pilastri” di cui si correda, tale soglia è stata poi progressivamente abbassata, fissandola dapprima a 500, 250 e, almeno per il momento, a 100.
Non è escluso, infatti, che si passi da tre a due cifre, portandola al limite minimo di 50 unità, magari prevedendola nell’ambito della varanda riforma degli ammortizzatori sociali ed estendendo così la platea delle imprese potenzialmente beneficiarie di tale norma.
Archiviate, si spera definitivamente, le zone d’ombra, in particolare quelle dal punto di vista operativo e meramente amministrativo attraverso la pubblicazione di una specifica circolare Inps, il Contratto di Espansione potrebbe dunque apprestarsi a vivere una nuova fase, con il venir meno di quel carattere sperimentale che ne ha contraddistinto questi primi anni di applicazione, per assumere la veste di provvedimento strutturale.
Si tratterebbe, in questo caso, del riconoscimento definitivo della bontà di un modello vincente, non figlio di una particolare contingenza temporale, ma di un ragionato e lungimirante percorso in grado di proiettare con successo le aziende, in un’ottica di condivisione di una prospettiva e di una visione con le organizzazioni sindacali, verso le nuove frontiere del mercato digitale e le nuove sfide nei diversi contesti in cui sono chiamate a misurarsi.
Tutto è subordinato, naturalmente, alla capacità di individuare e garantire negli anni le risorse economiche idonee per supportare le imprese nei loro continui processi di riorganizzazione e di trasformazione.
Oltre che per la riduzione di orario di lavoro attraverso il beneficio della integrazione salariale, la partita più grossa si gioca senza dubbio sul fronte dello scivolo pensionistico.
L’approssimarsi della scadenza di quota 100 e il conseguente rischio che dal 1° gennaio 2022 si materializzi lo spettro dei requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia e anticipata ordinari fanno presumere che il Contratto di Espansione possa costituire la soluzione a portata di mano anche per le piccole e medie imprese.
Questa possibilità è realizzabile laddove il tetto minimo dovesse effettivamente essere posto a 50 dipendenti e venisse confermata anche per un numero così basso il via libera a ricorrervi anche per mezzo di aggregazioni stabili di imprese con una unica finalità produttiva o di servizi.
Una eccessiva focalizzazione sullo scivolo pensionistico, individuato come strumento in grado di soddisfare una duplice esigenza – quella del dipendente di risolvere il rapporto di lavoro in anticipo e di raggiungere entro massimo 60 mesi i requisiti di accesso alla pensione e dell’azienda di ringiovanire gli organici – potrebbe tuttavia far attribuire al Contratto di Espansione un’impronta diversa rispetto alla ratio con la quale è stato ideato.
Non si dimentichi, infatti, che l’orizzonte di futuribilità attribuibile ad ogni azienda che intendesse adottarlo è reso effettivamente manifesto dal “combinato disposto” delle assunzioni di personale in possesso di profili in linea con le nuove competenze digitali richieste e del piano di formazione e di riqualificazione professionale, in grado di far sviluppare ai dipendenti le abilità necessarie a incrementare la propria occupabilità, ossia il proprio valore sul mercato del lavoro nel medio-lungo termine.