Quando la salita diventa speranza

Le strade di Kigali oggi parlano una lingua inaspettata: quella del ciclismo mondiale. Non è soltanto un evento sportivo, non è solo il prestigio di una maglia iridata. È la dimostrazione che una nazione, e forse un intero continente, può cambiare il racconto che la riguarda.

Perché, se dici Ruanda, la memoria va inevitabilmente a quei cento giorni del 1994, in cui il mondo intero, incredulo e inerte assistette al genocidio di Hutu contro Tutsi: più di 800mila morti, vicini contro vicini, lacerazioni profonde che non si rimarginano in una generazione. Il nome stesso di Kigali evocava allora macerie e sangue.

Eppure oggi la stessa città ospita il mondo, mostrando un volto diverso, con le sue strade asfaltate, la sua organizzazione, la capacità di accogliere. Non è un miracolo improvviso, ma un percorso lento, fatto di contraddizioni e fatiche. Ed è proprio questa la lezione: si può sempre invertire la rotta, anche quando tutto sembra irrimediabilmente perduto.

Il ciclismo, sport di fatica e di resistenza, non poteva che essere la metafora perfetta. Pedalare in salita significa crederci anche quando le gambe urlano, significa continuare a spingere anche quando sembra che non ci sia più ossigeno. Così il Ruanda e, più in generale, l’Africa: ogni metro conquistato costa sacrifici immensi, ma porta sempre più in alto.

E qui il discorso si allarga. Perché l’Africa non è solo un paese o un continente lontano. È la nostra frontiera, la sfida che non possiamo più fingere di non vedere. Continente sfruttato per secoli, terra da cui abbiamo preteso materie prime e manodopera senza preoccuparci di lasciare altro che macerie, oggi l’Africa chiede voce. E non si presenta solo come vittima. Si presenta come risorsa.

Sul piano economico è il luogo più giovane del mondo, dove la demografia è energia pura e il mercato è in crescita. Sul piano culturale è un mosaico che si rimescola, spesso in modo caotico, ma sempre vitale. Sul piano spirituale è ormai la nuova culla del Cristianesimo: laddove le chiese europee si svuotano, in Africa i fedeli aumentano. È un ribaltamento che interroga l’Occidente: come è possibile che chi ha avuto tutto sembri non credere più in nulla, mentre chi ha conosciuto guerre, fame ed epidemie sappia ancora tenere viva la speranza?

Lo sport qui diventa grimaldello, linguaggio universale, chiave d’accesso. Non è la prima volta che accade: Jesse Owens a Berlino ’36 mostrò al mondo l’inconsistenza della retorica ariana; il Camerun di Italia ’90 fece capire che il calcio africano poteva ribaltare i pronostici. Ora tocca al ciclismo in Ruanda dire al mondo che sì, anche da qui può arrivare un futuro diverso.

Forse è proprio questa la lezione che ci riguarda più da vicino. L’Occidente vive un tempo di disincanto e di stanchezza. Ci piangiamo addosso, ci rassegniamo al declino, ci perdiamo in polemiche sterili. E intanto, altrove, c’è chi pedala con ostinazione, chi costruisce dalle macerie, chi non smette di credere che la cima sia raggiungibile.

La verità è che la risurrezione non è mai un atto spettacolare: è sempre fatta di piccoli gesti, di scelte quotidiane, di resistenza silenziosa. Non è solo parola da messa, ma categoria della vita: rialzarsi quando sembrava impossibile.

Per questo, forse, la vittoria più importante di questi Mondiali non è quella che si decide sul traguardo. È quella, silenziosa e ostinata, di un continente che mostra al mondo che la speranza non è retorica, ma possibilità concreta.

E allora sì, Kigali ci dice che nulla è mai perduto del tutto. Che ogni salita ha una cima. Che anche da un abisso può nascere un orizzonte. È una lezione che non possiamo permetterci di ignorare.

Perché, se l’Africa può rialzarsi, allora, forse, possiamo farlo anche noi.

“Ciò che si oppone alla notte è la speranza” (Victor Hugo).