Quando cancellare una festa può far perdere la memoria condivisa
Ci sono gesti che sembrano solo piccoli aggiustamenti burocratici. Spostare una data, rinunciare a un giorno di festa, ridefinire un calendario. Ma a guardarli da vicino, questi gesti raccontano una trasformazione profonda nel modo in cui pensiamo il tempo. Una trasformazione che, sotto l’etichetta dell’efficienza, rischia di ridurre la vita a un’ininterrotta sequenza di ore da fatturare.
Un giorno di festa non è mai soltanto un intervallo di riposo. È un confine simbolico che ci ricorda che non siamo solo consumatori e produttori. È la possibilità di fermarsi insieme, di ritrovare legami, di condividere un senso di appartenenza che non nasce né si alimenta nel ritmo quotidiano del lavoro. È un tempo che, anche in termini economici, fa circolare energie diverse: i ristoranti pieni, i piccoli commercianti che lavorano, le famiglie che viaggiano, la fiducia che cresce nel riconoscersi parte di una comunità.
Eppure, ogni volta che i bilanci pubblici mostrano una crepa, la retorica è sempre la stessa: si lavora di più, si produce di più, si risparmia di più. È una formula che ha un’apparenza di ragionevolezza. Ma chi osserva con un minimo di distanza fatica a credere che un lunedì di chiusura e una giornata di commemorazione possano essere davvero le cause di un disavanzo. O che toglierle sia la strada più intelligente per contribuire a risanarlo.
C’è sempre un altro modo di trovare risorse: contenere sprechi, semplificare procedure, rivedere spese inutili, ripensare priorità. Chiedere ai cittadini di rinunciare agli spazi di tempo condiviso è la scorciatoia più semplice e, forse, la meno coraggiosa. Quella che costa meno a chi governa e di più a chi vive.
Poi c’è una contraddizione di fondo. Proprio negli anni in cui il mondo del lavoro si interroga su come conciliare produttività e benessere e mentre molte aziende in Europa sperimentano la settimana corta, la politica sembra tornare a un riflesso antico: comprimere le pause, sottrarre riposo, spingere le persone a lavorare un po’ di più. Come se la qualità della vita fosse sempre la prima voce sacrificabile.
Si dirà che si tratta di dettagli. Che un giorno in più o in meno non cambia la traiettoria di un Paese. Ma spesso i dettagli raccontano più delle grandi riforme. Perché un Paese che rinuncia ai suoi simboli comuni — una giornata di primavera trascorsa con la famiglia, un anniversario di liberazione e memoria — finisce per ridurre il calendario a un inventario di giornate produttive e improduttive. E se tutto ciò che non genera un rendimento immediato diventa un lusso, allora la povertà è già cominciata.
Non è un discorso economico e basta. È una questione di cultura e di sensibilità collettiva. Perché una comunità che non sa concedersi pause condivise è una comunità che si impoverisce, anche se i conti migliorano di qualche decimale. Una società che smette di riconoscere il valore del riposo comune perde un po’ della sua memoria, un po’ della sua capacità di fidarsi degli altri, un po’ della sua umanità.
E mentre si discute in astratto di produttività, c’è chi ha già deciso di mettere questa idea in pratica. In Francia, il governo ha proposto di eliminare due giornate simboliche: il lunedì di Pasquetta, che non è una festa religiosa nel senso stretto, ma un retaggio storico di convivenza e convivialità, e l’8 maggio, giornata in cui si commemora la Festa della Vittoria sulla Germania nazista durante la seconda guerra mondiale. Due giorni che non sono semplici vacanze, ma momenti che raccontano chi siamo e cosa vogliamo ricordare.
Forse, prima di depennare un’altra festa dal calendario, varrebbe la pena chiedersi a cosa rinunciamo davvero. Perché, alla lunga, un po’ di ricchezza si perde. Ma non nei bilanci: nei legami, nella memoria, nella fiducia di sentirsi parte di qualcosa che esiste anche quando non si produce.
Nella festa si trova una ragione più profonda della vita, una solidarietà più salda, un anticipo della liberazione, un’atmosfera in cui ci si purifica, ci si eleva, ci si abbandona (Aldo Capitini).