Ogni bambino ucciso in guerra spegne un pezzo di futuro
La guerra è sempre una sconfitta. Lo è per chi la subisce, lo è per chi la combatte, lo è persino per chi, illudendosi vincitore, ne raccoglie soltanto macerie morali. È sconfitta per l’umanità intera, perché ogni conflitto cancella un pezzo del nostro futuro collettivo.
L’elenco degli oltre 12mila nomi — quasi tutti bambini palestinesi, sedici israeliani — non è una contabilità, non è un bilancio di parte. Non sono numeri da contrapporre, non sono trofei o risarcimenti. Sono vite spezzate. E se a questi aggiungiamo i ragazzi dai 12 ai 17 anni, il numero sale a circa 18mila: un’intera generazione cancellata, prima ancora di poter diventare adulta.
Eppure in quell’elenco, virtualmente, ci sono tutti i bambini del mondo morti a causa della guerra, in ogni epoca e in ogni latitudine. Ci sono quelli di cui ricordiamo i volti perché le loro foto sono finite sulle prime pagine e quelli di cui non sapremo mai nulla: senza nome, senza età, senza un luogo dove la loro memoria sia custodita. Bambini “ricordati” e bambini dimenticati, non per il valore della loro vita — che è sempre incommensurabile — ma per la visibilità che il nostro mondo decide di concedere o negare.
Le guerre civili dimenticate, i conflitti nelle terre povere, le violenze che non hanno sponsor geopolitici ed economici e quindi non entrano nelle agende dei telegiornali: anche lì, ogni giorno, bambini e ragazzi muoiono. E spesso muoiono due volte: la prima sul campo, la seconda nel silenzio che segue, quando nessuno li nomina.
Ogni giovane vita stroncata in guerra non è solo “un figlio di qualcun altro”: è un frammento di futuro che svanisce per tutti noi. È un capitolo che non verrà scritto nella storia dell’umanità. È un possibile medico, insegnante, artista, scienziato, amico, compagno di giochi che non conosceremo mai.
La guerra ruba ai bambini e agli adolescenti la vita e sottrae a noi la possibilità di un domani migliore. E questa perdita non è compensata da alcuna vittoria strategica, da alcun territorio conquistato, da alcun trattato firmato. Perché nessuna mappa politica, per quanto ridisegnata, può restituire quello che si perde con un solo nome inciso troppo presto su una lapide.
Pochi giorni fa il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, ha dato voce a quell’elenco, portandolo all’attenzione dell’opinione pubblica come un appello alla pace che non può essere ignorato. È stato un gesto che ha ricordato come la memoria non debba mai fermarsi, neppure nelle settimane d’estate. Chi è in vacanza, chi si sente lontano dai luoghi del conflitto, dovrebbe trovare almeno un momento, durante la giornata, per pensare che nessuno può ritenersi davvero immune dalla guerra. La storia, purtroppo, lo ha insegnato troppe volte: ciò che oggi appare lontano domani può bussare alla nostra porta.
Ma la pace non è soltanto il frutto di accordi internazionali o il risultato di summit fra leader: è anche — e forse soprattutto — una responsabilità quotidiana. Ognuno di noi ha il dovere di costruirla negli ambiti in cui viviamo e operiamo, nelle parole che scegliamo, nei gesti che compiamo, nelle decisioni che prendiamo ogni giorno. L’ostilità e la violenza non nascono solo nei palazzi del potere: possono germogliare anche nei rapporti personali, nelle piccole ingiustizie ignorate, nelle discriminazioni tollerate, nella mancanza di ascolto reciproco.
Guardare quell’elenco significa riconoscere che, nel mondo di oggi, non basta dire “mai più” se poi lasciamo che la logica della forza continui a prevalere, persino nelle relazioni di ogni giorno. Significa chiederci se sappiamo dare lo stesso peso e la stessa importanza a ogni vita spezzata, senza distinzioni e senza calcoli di convenienza.
La pace comincia quando ogni vita viene riconosciuta come ugualmente preziosa e ogni morte come una ferita che riguarda tutti. Finché non sapremo piangere insieme ogni bambino e ogni ragazzo, di ogni guerra, e agire perché nessun altro debba essere aggiunto a quell’elenco, la pace resterà un orizzonte lontano.
Forse la lezione più dura è proprio questa: in guerra siamo tutti sconfitti. Ma a pagare il prezzo più alto sono sempre quelli che non hanno scelto di combatterla. I bambini e i giovani.
“Io sogno di dare alla luce un bambino che chieda: mamma, che cosa era la guerra?” (Eve Merriam).